Non è configurabile il reato di cui all’art. 4 della legge 300/1970 quando l’impianto audiovisivo, anche se installato senza autorizzazione, non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti

Sentenze   del 18/12/2023 Non è configurabile il reato di cui all’art. 4 della legge 300/1970 quando l’impianto audiovisivo, anche se installato senza autorizzazione, non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti. Non è configurabile la violazione della disciplina di cui alla legge n. 300 del 1970, artt. 4 e 38, tuttora penalmente sanzionata in forza dell’art. 171 del D. Lgs. n. 196 del 2003, come modificato dalla legge n. 101 del 2018, quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti. Lo aveva già sostenuto la Corte di Cassazione in una precedente sentenza della stessa Sezione III, la n. 3255 del 27/01/2021, e così come allora la suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso presentato dalla titolare di un bar condannata dal Tribunale e ha annullata la sentenza con rinvio al Tribunale di provenienza giudicando la stessa lacunosa per essersi limitata a dare atto che, nel bar di cui l’imputata era titolare, erano stati installati un monitor e cinque telecamere, in difetto di espressa autorizzazione, e per non avere invece precisato se nell’esercizio commerciale dalla stessa gestito prestassero servizio dei lavoratori subordinati e se l’impianto di video sorveglianza implicasse, in ogni caso, un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti. Il fatto, il reato e la sentenza di condanna del Tribunale. Il Tribunale ha dichiarata la penale responsabilità della titolare di un bar per il reato di cui all’art. 4 della legge n. 300 del 1970 e l’ha condannata alla pena di euro 3.000 di ammenda. Secondo quanto ricostruito dal Tribunale, la stessa avrebbe installato un impianto di videosorveglianza senza la preventiva autorizzazione richiesta dalla legge. L’imputata ha quindi presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale, a mezzo del proprio legale difensore, articolando con tre motivi. Con il primo motivo, ha denunciata violazione di legge, con riferimento alla legge n. 300 del 1970, art. 4 avendo riguardo alla ritenuta configurabilità della fattispecie di reato per la quale era stata pronunciata la condanna. Ha infatti dedotto, in particolare, che non fossero state fornite indicazioni su due elementi centrali della fattispecie, perché non si era dato conto se l’impianto fosse preposto alla registrazione, né se l’imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno. L’impianto, infatti, era a circuito chiuso e non implicava alcuna registrazione e inoltre l’azienda non aveva dipendenti. Ha osservato, inoltre, che non vi erano stati elementi idonei ad affermare la coscienza e la volontà del fatto illecito e che inoltre era mancata una effettiva valutazione critica della attendibilità della principale teste di accusa. Con le altre motivazioni la difesa ha denunciata l’eccessività della pena e dedotta che la stessa era stata sproporzionata, avendo riguardo al fatto contestato ed al contesto in cui lo stesso si è verificato e ha denunciata altresì la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. che si sarebbe dovuta comunque riconoscere per la modestia del danno e per la minima intensità del dolo. Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione. La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso in relazione solo alla censura esposta nel primo motivo con la quale era stata contestata la ritenuta configurabilità del reato, deducendo che non fosse stato indicato se l’imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno, e che l’impianto fosse inidoneo ad effettuare registrazioni. Innanzitutto, va osservato, ha così sostenuto la suprema Corte, che la presenza di lavoratori nel luogo ripreso dagli impianti di videosorveglianza è requisito imprescindibile per la configurabilità del reato in contestazione. Invero, detto reato, sulla base di quanto previsto dall’art. 15 del D. Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, che costituisce la disposizione incriminatrice, è integrato dalla violazione della legge 20 maggio 1970, n. 300, art. 4, comma 1, previsione a sua volta diretta a regolamentare l’uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti “dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Ha poi rilevato la stessa Corte che, secondo un principio enunciato in giurisprudenza, non è configurabile la violazione della disciplina di cui alla legge n. 300 del 1970, artt. 4 e 38, tuttora penalmente sanzionata in forza dell’art. 171 del D. Lgs. n. 196 del 2003, come modificato dalla legge n. 101 del 2018, quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi, citando come precedente espressione in tal senso quella contenuta nella sentenza n. 3255 del 27/01/2021 della Sezione III, pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo “La regolarità dei dispositivi di videosorveglianza nei luoghi di lavoro”. La sentenza del Tribunale, secondo la Corte suprema, si è presentata lacunosa in quanto si è limitata a dare atto che, nel bar di cui l’imputata era titolare, erano stati installati un monitor e cinque telecamere, in difetto di espressa autorizzazione, ma non era stato precisato nella stessa né se nell’esercizio commerciale gestito dall’imputata prestassero servizio suoi lavoratori subordinati, né, in ogni caso, se l’impianto di videosorveglianza implicasse un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di mantenerlo “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi. La fondatezza della censura sopra precisata ha imposto quindi l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di provenienza affinché lo stesso valutasse, in diversa persona fisica a norma di quanto previsto dall’art. 623 c.p.p., comma 1, lett. d), se dovesse o meno ritenersi sussistente il reato di cui alla L. n. 300 del 1970, artt. 4 e 38 e D. Lgs. n. 196 del 2003, art. 171 come modificato dalla L. n. 101 del 2018, in particolare verificando se, nel bar gestito dall’imputata, prestassero servizio lavoratori subordinati, e, in caso affermativo, se l’impianto di video sorveglianza ivi posizionato implicasse un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di tenerlo “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi.

Fonte Intenet

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