La natura giuridica della “non punibilità” dell’aiuto al suicidio evidenziata nell’ambito della vicenda Cappato. Agenzia Investigativa IDFOX Milano

L’istigazione o aiuto al suicidio

La natura giuridica della “non punibilità” dell’aiuto al suicidio evidenziata nell’ambito della vicenda Cappato.

Già in diversi procedimenti penali Marco Cappato è stato indagato del delitto di cui all’articolo 580 del codice penale, rubricato come istigazione o aiuto al suicidio, per aver organizzato e poi materialmente eseguito l’accompagnamento di diversi soggetti presso la clinica svizzera dove, qualche giorno dopo, decedevano in seguito alla procedura di suicidio assistito. Le vicende hanno fatto scalpore, nell’ambito del dialogo tra innocentisti e colpevolisti, in seguito a una sentenza della Corte Costituzionale, che ha nel 2019 dichiarato la norma in questione, ossia l’articolo 580 del codice penale, illegittima nella parte in cui non ha escluso la punibilità, in quel caso di Cappato, ma comunque in generale, di chi, con le modalità previste dalla legge (norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), agevola l’esecuzione del proposito di suicidio,autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile; malattia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili.

 

Di qui, l’assoluzione del Cappato perché, in estrema sintesi, il divieto di aiutare qualcuno a procurarsi la morte va coniugato col diritto a una vita dignitosa e col diritto al rifiuto di trattamenti terapeutici a fronte di una malattia che abbia esito certamente infausto, a conclusione di un percorso altrettanto certo di dolore acutissimo e senza fine.

Oggi, alla luce di una nuova richiesta di intervento della Corte costituzionale, sempre relativa a un procedimento penale instaurato nei confronti di Marco Cappato, si pone nuovamente il problema su cosa si intenda per aiuto al suicidio e soprattutto fino a cosa si possa estendere la causa di non punibilità.

Indice

* La vicenda

* Qual è stato l’esito della causa?

* Il contrasto con il principio di dignità

* Conclusioni

La vicenda

A un soggetto, nel 2017, veniva diagnosticata la sclerosi multipla, patologia del sistema nervoso centrale che conduce a invalidità progressiva del paziente. Dopo l’esordio dei primi lievi sintomi, il quadro clinico era rimasto stazionario per alcuni anni, finché, tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, si era registrato avanzamento della malattia, con conseguente peggioramento delle condizioni di vita: dapprima aveva iniziato a manifestare difficoltà nella deambulazione, poi si era reso necessario il ricorso alla sedia a rotelle e, dopo qualche mese, risultava pressoché totalmente immobilizzato. Nel corso di questo periodo veniva a conoscenza della esistenza di associazioni dedite a offrire supporto ai pazienti che sono interessati ad accedere a procedure di suicidio assistito all’estero, e in particolare di Marco Cappato. Di qui, in rapida sintesi, i contatti, tramite Cappato, con la clinica svizzera, i vari colloqui e visite con diversi medici al fine di verificare l’esistenza dei presupposti per il suicidio assistito, la conferma della propria volontà e l’assunzione del farmaco letale, che dopo pochi istanti ne causava la morte. Di qui ancora l’instaurazione del procedimento penale nei confronti di Cappato.

Qual è stato l’esito della causa?

A seguito della richiesta di archiviazione presentata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale competente, basata essenzialmente e sinteticamente su quanto stabilito a proposito della non punibilità in caso di dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, il Giudice chiamato a decidere sulla richiesta ha ritenuto che la vicenda sottoposta al suo giudizio non ricadesse nel caso previsto dalla sentenza della Corte Costituzionale. La causa di non punibilità del reato, infatti, a dire del decidente, non richiede solo che la persona si trovi in una situazione di salute per cui siano necessari trattamenti di sostegno vitale, ma esige, con formulazione chiara e non controvertibile, che sia tenuta in vita da quei trattamenti: che vi sia cioè non solo una situazione di bisogno (e dunque di appropriatezza medico sanitaria), ma anche una effettiva e attuale sottoposizione a tali trattamenti. Il problema però è che una visione così stringente dei “requisiti” necessari a valutare la non punibilità dei soggetti che collaborano al suicidio assistito di un soggetto già determinato si ripercuotono su un aspetto ancora più rilevante.

Il contrasto con il principio di dignità

È di senso comune l’idea per cui la prolungata attesa della morte possa comportare un maggior carico di sofferenza e di “pregiudizio” per i valori della persona, legato non solo al dolore derivante dalla malattia, ma anche alla contemplazione ormai disperata della propria agonia e della propria sorte, nonché al fatto che a tale inevitabile declino possano assistere (o siano costrette a farlo) persone care; non dobbiamo dimenticare anche, da questo punto di vista, l’interesse che il paziente può avere di lasciare di sé una certa immagine. In questo senso possiamo certamente utilizzare il concetto di dignità, inteso come rispetto della persona umana in quanto tale, nella sua dimensione soggettiva e di esperienza sensibile. Imporre al paziente di vivere fino a quando non sia necessario il trattamento di sostegno vitale, in ossequio a quanto stabilito dalla sentenza della Corte costituzionale, che esclude, come detto, la punibilità esclusivamente nei casi di trattamento di sostegno vitale, significa imporre al paziente irreversibile e sofferente di attendere, chissà poi per quanto tempo, ciò che è inevitabile, ossia che la malattia si aggravi fino allo stadio in cui si renda necessaria l’attivazione di tali trattamenti.

Una simile disciplina può rappresentare un fattore di pericolo per la conservazione del bene vita e per il rispetto della dignità della persona: il concetto secondo il quale l’aiuto al suicidio rientra nella dimensione della “legalità” solo quando la malattia degeneri fino a una fase terminale, aumenta il rischio di incentivare propositi suicidiari da parte di soggetti che, non intenzionati, comprensibilmente, ad attendere la fine inesorabile o l’aggravarsi delle condizioni fino al punto di dipendere da una macchina, decidano di darsi la morte in completa autonomia, in assenza di aiuti da parte di terze persone, con modalità prive di adeguato supporto e controllo medico, e quindi in modo non conforme e coerente con il concetto di dignità sopra descritto. Richiedere infatti al paziente sofferente di spingersi oltre ogni possibile limite significa pretendere una resistenza e uno spirito di sacrificio compatibili solo con una malsana idea di etica e di perfezione morale e contrastante con il concetto di dignità.

Conclusioni

Ecco perché il Giudice, chiamato a decidere sulla richiesta di archiviazione formulata dalla Procura della Repubblica competente per territorio in relazione a un nuovo procedimento penale nei confronti di Cappato, ha sollecitato un nuovo intervento del Giudice delle leggi al fine di estendere il concetto di non punibilità non soltanto alle ipotesi di trattamento di sostegno vitale bensì anche a quelle analoghe, portatrici di grande sofferenza come quella per cui si è già deciso in maniera garantista.

Resta infine da chiarire, in maniera assai sintetica, che un conto è l’istigazione al suicidio, su cui prima o poi toccherà confrontarsi, un altro è l’aiuto al suicidio, che comprende la fase esecutiva e non incide sul processo volitivo del paziente sofferente.

 

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